Remember Zio Lalo

Non so, ma questo caldo mi ha fatto tornare in mente il ristorante Da Zio Lalo (o Dal Lalo, non ricordo bene), una grossa baita in un alpeggio raggiungibile in auto, il Quaggione, appena sopra casa mia. Era una trattoria famosa, dove si mangiava tanto e si spendeva poco. Chiusa per cambio gestione anni fa. Come si mangiava, però? Bah!? Cose dozzinali, in grande quantità; stesso menù ogni mese dell’anno; se mangiavi tutto non pagavi (forse qualche pazzo ci è anche riuscito); clienti da ogni parte d’Italia, meno dal loco. Cosa piaceva in questo ristorante? La quantità e il basso prezzo. Per trenta euro o meno mangiavi l’inverosimile. Cosa non piaceva: lui, con un barbone mefistofelico, aria sporca e trasandata (ma era stato cuoco in hotel a Milano, ma sembrava un’altra vita davvero); i suoi cani; il menù ripetitivo a base di maiale, in primis, e tanti risotti, carne trita in salsa rossa, salsiccia in salsa rossa, fagioli in salsa rossa, altre cose in salsa rossa, formaggi freschi, salami giovani, bistecche alla milanese (pollo se non ricordo male) sottili e in grande quantità, polenta, polenta, polenta, tanta “puccia”, vini “aggressive” amari acidi scomposti… tutto il contrario di ciò che dicono nel marketing. Ma funzionava. Gli gestori dopo, cucinavano meglio, ma hanno avuto meno clienti ed hanno chiuso.
Io ci andai l’ultima volta nel 2003, anno caldo come questo; ci andai con Pasquale Juzzolino, giornalista torinese, che amava mangiare abbondantemente (ed io, allora, pensai: “zac che te la faccio!”). Faceva caldo anche al Quaggione e il locale era pieno. Ci fecero accomodare sotto un dehors (meno male) ed io sperai, inutilmente, che il menù fosse cambiato dato il caldo e data la stagione. Niente: due o tre piatti di antipasti: salami, formaggi, formaggi freschi, pane, vino terribile (me lo feci cambiare e il cameriere mi disse”bah, me ne ha lasciato qualche bottiglia un rappresentante”, come dire se proprio rompi. Mi arrivò un sufficiente erbaluce), poi tre risotti a colpi di due etti a testa; poi tre quattro cinque sei cose galleggianti in salsa rossa e polenta, un chilo di polenta per due; e poi una montagna di milanesi e patate tante patate; e poi dolci dolci… e dimentico certo qualcosa. Juzzolino era in estasi io ero sopraffatto dall’eccesso: caldo, esagerazione, inutilità, stesso sapore… Un’orgia senza senso, senza vero godimento. Ma il locale era pieno.
Difficile descrivere le mie sensazioni. Però, due anni dopo lessi il libro “Alpinisti Ciabattoni” di Achille Giovanni Cagna. I protagonisti del romanzo, i coniugi Gibella, arrivano ad Omegna e lì scoprono che esiste un famoso e frequentatissimo ristorante a prezzo fisso, dove potevi mangiare tutto quello che volevi. Proprio come alla Baita da Zio Lalo. Per cui mi aiutano le parole del vercellese che descriveva questo locale di allora (siamo nella tarda seconda metà dell’Ottocento), ma con parole che possono adattarsi allo Zio Lalo. Ecco, leggiamo: “Le tavole della sala grande erano tutte in disordine, ma c’era posto dappertutto, ed i Gibella furono subito serviti di una buona minestra con verdura. Per solito, dal Cecco non c’è molto lavoro nella mattina; la folla dei tavolanti si fa all’ora del pranzo. Dalle cinque alle sette la locanda rigurgita di clienti; le tavole sono gremite di mangiatori serrati gomito a gomito, e sulle porte c’è sempre una ressa di gente che aspetta per pigliare d’assalto i posti vacanti. Per lire due e mezza il Cecco dà un pranzo di cinque o sei piatti di cucina, piatti vistosi di famiglia, vino, dolci, frutta e formaggio. Un’intiera colonia di villeggianti va a stabilirsi espressamente a Omegna per amore di quella California. Affittano camere, fanno in casa uno spuntino leggiero leggiero, o stanno digiuni addirittura, aspettando l’ora del pranzo per piombare su quelle tavole strette, con la rapacità perfezionata da un digiuno di ventiquattr’ore, ingagliardito dalle igieniche escursioni alpestri. E allora, salvi chi può: un trangolare furioso, senza riposo, e dalle trancie di manzo alle biette di formaggio, alle torricelle di pasticcerie, tutto dilegua stritolato, maciullato sotto le formidabili zanne dei vigorosi mangiatori. Taluni, per distrazione, quando sono a casa trovano di avere in saccoccia dolci, formaggio e quarti di pollo. Ci sono avventori che vanno a pranzare un giorno sì e un giorno no, scusando nella giornata di vigilia con un resto di indigestione, inaffiato di caffè e latte, e qualche avanzo racimolato a tavola nella distrazione del giorno innanzi. Ma chi ci bada a quelle inezie! La locanda è sempre piena di dilettanti. Il Cecco, vecchietto burbero tagliato via da un quadretto Goldoniano, si cuoce da sessant’anni in lesso ed arrosto nella sua cucina fiamminga, ravvolto nel suo ampio grembialone da sguattero; squarta, frigge, rimesta pentoloni, non bada ad alcuno, non parla, non risponde; interrogato, sghiscia in mezzo alle sue padelle, e non si lascia più vedere. Il buon vecchio ci tiene alla rinomanza del suo esercizio; più sollecito della riputazione che del guadagno, si è assunto in buona fede di rimpinzire la gente a buon mercato, e mandare innocentemente in malora gli osti ed i trattori del dintorno. — Buona la minestra! magnifica la costoletta! — sclamò Gaudenzio sgocciolando l’ultimo fondo della bottiglia”.
Già, una formula che va fin da allora. Però…

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