On the border

Sono stato sull'orlo di una frattura, nel luogo dove s'incontrano due faglie gastronomiche. Il Rinascimento monumentale e la modernità prudente; l'aristocrazia gaudente e la borghesia ammirata ma intimorita. Sono stato a cena con l'Accademia Italiana della Cucina, sezione di Novara, che ha proposto a soci ed ospiti (fra cui io) un incredibile Gran Bollito Piemontese, dedicandolo al grande Giovanni Goria di Asti e ai 150 anni dell'Unità che proprio dal Piemonte ha preso il là. Sede, il Ristorante Cravero di Caltignaga.

Ma perché “incredibile”? Perché abbiamo goduto di un saporito antipasto, tre portate di carni bollite, una di carne arrosto (il “richiamo”), un brodo fumante al vino rosso, un eccezionale sorbetto al Campari, dolci vari e vini in abbinamento. Un menù pantagruelico, ben cucinato dagli chef Giampiero Cravero, del Cravero di Caltiniaga, e Luca Corradino, dei Due Ladroni di Novara; un menù raro, perché ottenuto da prodotti di prima qualità: soprattutto carne di fassone piemontese, da Carrù, e perché difficile da realizzarsi. Unico e raro; un menù impossibile da proporre altrove: solo gli appassionati lo riescono a giustificare: eccessivo, ipercalorico, sbilanciato; però, anche un menù intellettuale, ricco di storia.

Si tratta di un menù borghese della festa che fa l'occhiolino ai menù rinascimentali, medievali, aristocratici. Ai tempi in cui il pranzo era soprattutto ostentazione, eccesso, generosità, carne, cacciagione, arrosti… Allora si ragionava per portate: la carne veniva servita direttamente sul tavolo. A volte tagliata al volo dal trinciante. I ricchi nobili godevano della generosità del padrone di casa: le portate erano accompagnate da musici, spezie, colpi di scena, pieces monumentali, ore ed ore a tavola, amori e tradimenti. Un'orgia totale. Il cibo veniva appena assaggiato dagli ospiti, poi i servi toglievano tovaglie e portate e il cibo avanzato veniva consumato da altri, con una scala gerarchica che arrivava fino al fondo: ai cani. Si mangiava per ore, si bevevano vini aromatizzati, si godeva di spettacoli; si consumava soprattutto carne: carne bollita, prima ed arrosto dopo. La carne bollita era sentita come più leggera. Il “richiamo” della lonza arrosto richiama, appunto, il tempo in cui, dopo i bolliti, si passava agli arrosti. Le famiglie borghesi del Piemonte, che colonizzarono il Settecento e l'Ottocento piemontese, avevano come modello la grande aristocrazia e ne riprendevano (ed invidiavano) usi e costumi, ma lo facevano in maniera più oculata. Il gran bollito è una di queste: sette carni bovine, sette carni diverse, un arrosto di richiamo, contorni, sette salse… pantagruelico, ma ben distante dall'orgia medievale. Tanta carne, sì. Ma si può fare. Quella avanzata si può mangiare ancora. Si possono fare altri piatti. Nulla viene buttato via. Tutto appare comunque più sobrio. Ed è esagerato ai nostri occhi, solo perché la borghesia di oggi ostenta diversamente e il fascino dell'aristocrazia si è affievolito.

Dunque il Gran Bollito Piemontese è una tradizione di frattura, un ponte fra due epoche. Una testimonianza di storia. Un menù che sta sulla faglia, “on the border”.

Io me lo son goduto perché “accademico” in pectore: un gourmand che è anche un po' gourmet. Capace di unire gola e testa. E come poteva essere diversamente: la serata del Gran Bollito non è stata un ammasso di calorie, ma il frutto d'intelligenza e di capacità.

Ripercorriamola: con un franciacorta doc due appetizer: carne cruda macinata con sale grosso di cervia, sfogliatine salate. Discreti. La Prima portata con cinque tagli di carne: spalla, tenerone, testina, baincostato e zampino. Grandi, grande. In accompagnamento un'insalata di cipolle lesse e sette salse in barattoli di vetro: verde rustico, verde ricco, rosso, cren, mostarda, cugnà e salsa al miele. Seconda portata con quattro portate di carne: cappello da prete, lingua, scaramella, fiocco di punta. Ottimo, davvero ottimo. In abbinamento, patate bianche lesse. Intanto avevamo finito il pane fatto in casa, da lievito madre: al latte, alle noci, al gorgonzola, il pane sciocco, le lingue di semola all'olio di oliva Geraci. Intermezzo di brodo al vino. Buono. Terza portata (quella che mi è piaciuta di meno): cotechino, falso in fuori, muscoletto e gallina. Spinaci freschi, belli verdi e croccanti. Quarta portata: lonza arrosto. Buona. Il sorbetto al Campari (bevanda che è nata a Novara, per chi non lo sapesse) è eccezionale. Buoni i dolci.

Davvero sarà difficile rifare una cena simile, per originalità, intelligenza e qualità. Difficile trovare, anche in scala minore, piaceri gustativi simili.

E i vini? Discreti e buoni. Buono il franciacorta, di cui, però, non conservo traccia. Buono il barbera vivace Agiuiusa 2009 di Cantina Crivelli. Un vino fruttato, giovane. In bocca fresco, carbonico, non troppo equilibrato. Irruente. Poco meno di buono l'uva rara 2009 della Cantina Barbaglia. Delicati profumi di frutta. In bocca è fresco e magro. Il nebbiolo 111 2007 della Cantina Zoina di Oleggio era discreto: poco profumato, fra il tostato e il fruttato. In bocca è fresco, gustoso e poco corposo. Amarognolo. Sembra ancora giovane.

Sulla faglia, sulla frattura fra due epoche ci avrei messo forse altri vini. Magari un barolo; magari un barolo speziato, un ippocrasso… Ma questa è un'altra storia.  

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One thought on “On the border

  1. Volevo dire che la citazione del barolo non è dovuta, come hanno alcuni creduto, ad abbinamenti più o meno corretti (cosa di cui, credetemi, poco mi importa); ma solo da considerazioni storiche: il barolo come vino della borghesia piemontese dell'Ottocento, il barolo chinato o l'ippocrasso come eredi dei vini speziati usati nel medioevo – rinascimento… con il bollito cosa metterei dunque? Un vino rosso non troppo potente, tipo dolcetto o barbera, ma anche grignolino (per restare in Piemonte).

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