Il vino delle anfore

Sembrava essere unico, invece è diventato molteplice. Unico nella scelta di far fermentare il vino in antichi contenitori di terracotta. Per qualcuno un originale, per altri un tipo po’ matto. Eppure la sua idea ha avuto successo ed è stata imitata. Al punto che già si parla di una nuova categoria di vini: i vini delle anfore.

Definire nuovi questi vini è però un ossimoro storico, visto che per secoli i vini sono stati fermentati, fatti maturare, affinare e trasportati in contenitori di argilla cotta. Le anfore a punta romane sono l’esempio più immediato e l’immagine a cui si collegano facilmente questi vini.

Le anfore di Josko Gravner, l’unico di cui si parlava prima, sono invece dei grandi orci in terracotta, da più di tremila litri, che il viticultore friulano (di Oslavia) ha incominciato ad usare nel 1997. Virando la sua produzione, in toto, a partire dal 2001. Contenitori che ha fatto arrivare dal Caucaso, zona in cui l’antico utilizzo della terracotta non è mai venuto meno. I recipienti sono stati interrati nella cantina, incerati al loro interno. Una volta pigiata l’uva (merlot, ribolla, sauvignon , chardonnay…), il mosto viene fatto fermentare negli orci. E lì viene lasciato a macerare per mesi, insieme alle bucce, ai semi e alla polpa. Poi passa in grandi botti di quercia.

Il vino di Gravner è oggi molto conosciuto, apprezzato e pagato. La ribolla in primis. Immaginiamo però la sorpresa dei primi consumatori davanti a vini dalle tonalità cupe, torbidi. Soprattutto i vini bianchi danno l’idea di vini fatti, andati a male. Il sapore è migliore dell’aspetto, ma anche qui le note donate al vino dall’ossidazione non sono consuete, né facili da accettare nell’immediato.

Eppure, come si diceva, i vini di Gravner piacciono e lui è diventato un personaggio. Piacciono e piace soprattutto a quella frangia di produttori e consumatori “radicali” che hanno in antipatia un’agricoltura ed una viticoltura industrializzata, globalizzata: dai risultati scontati, uguali a sé stessi un po’ ovunque. Che piacciano o meno, bisogna comunque riconoscere che si tratta di vini con una forte personalità, diversi.

Il suo esempio è stato seguito da altri viticultori, in Italia e nel mondo. Un po’ per convinzione e un po’ per convenienza. E così, quasi un paradosso storico, i consumatori di oggi riescono a bere ciò che i consumatori di ieri non potevano. Cioè un vino fatto così come lo facevano l’altroieri gli antichi greci e gli antichi romani. Il vino delle anfore.

Quasi un viaggio nel tempo, ma con una domanda a cui dare risposta: verso il passato o verso il futuro? Gli adepti di questa nuova-antica tecnica di vinificazione sono infatti quasi tutti legati ad una impostazione biologica e biodinamica della produzione del vino. Partendo dalla terra. Questa fermentazione in terracotta chiude così il cerchio di una produzione che vuole essere quanto più naturale possibile. Quanto più, perché certi preparati come la solforosa sono difficili da abbandonare. Ma si usano poco. Insomma, la terracotta si collegherebbe ad una concezione verde, ecologista dell’esistenza.

Tutti i produttori dei vini delle anfore sono stati colpiti dall’esempio di Gravner e dal successo che lui e i suoi vini hanno ottenuto. In Italia, possono essere dichiarati suoi seguaci Alessandro Sgaravatti del Castello di Lispida, in Veneto, che usa le anfore per “realizzare il primo vino italiano prodotto rispettando in modo fedele le pratiche arcaiche di vinificazione in uso presso l’antica Roma” (dal sito aziendale); nonché Emidio Pepe, dell’Abruzzo, che fa vini partendo dalla raccolta manuale, passando per la “diraspatura fatta a mano” e la “pigiatura coi piedi”; il vino poi “fermenta senza aggiunta di lieviti selezionati né di solforosa”. Niente terracotta per lui, ma vasche di cemento. Ma anche per lui lunghe maturazioni e nessuna filtrazione.

Il credo di Gravner è sbarcato poi nel nuovo mondo, nella Napa Valley californiana. Dove la Dotto Vineyards sta costruendo una nuova cantina. La “costruzione include una stanza con colonne di marmo e soffitto alto 50 piedi, disegnata in uno stile che ricorda un museo italiano, dove sono raccolte una varietà di oggetti legati alla storia del vino”. Il proprietario, Dave Del Dotto, dopo aver letto un articolo dedicato a Josko Gravner ed ai sui vini bianchi, ha deciso di produrre i vini delle anfore. E lo ha fatto in grande stile, “all’americana”: ha trovato in Toscana quattro antichi orci, di circa tre secoli, li ha comprati per circa 15mila dollari l’uno. Li usa ora per far fermentare il mosto di sangiovese, zinfandel e cabernet sauvignon. I vini vengono imbottigliati in bottiglie di terracotta da un litro e mezzo. Vendute al prezzo di circa 100 dollari l’una. Altro che scelta ecologista: l’unico verde qui sembra essere quello dei dollari!

Sempre Gravner è poi “co-responsabile” dell’interesse che la viticoltura georgiana sta riscuotendo in Italia. Vengono da là, infatti, le sue anforone di terracotta. E là vengono ancora usate. Probabilmente solo perché all’epoca dell’Urss era più difficile trovare l’acciaio che l’argilla. Ma tant’è: vini georgiani prodotti usando le anfore vengono ora importati in Italia. E già un certo movimento di tecnici e capitali si sta muovendo su quella rotta. Un sentiero antichissimo che ci riporta da una parte al passato e dall’altra al presente di una nuova tipologia di vini: i vini delle anfore. 
Visite: 1262

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *