Gino, oh Gino!

GravnerRibollaGino ci convoca: io e l’innominabile. Vuole chiederci dei consigli, un aiuto per delle belle iniziative che vuole realizzare nel suo locale di Beura: il SonGino. Parliamo, ci offre del vino. Sempre lui: l’Anfora di Gravner del 2002. Gino dice di non capirlo. Qualche cliente lo apprezza, altri no. Costa caro. Ci chiede un’opinione. Io gli rispondo che, se lo bevo con la testa: la fermentazione in terracotta, il vignaiolo biodinamico, la scelta originale, il suo radicalismo, Luigi Veronelli, Critical Wine… mi piace; se lo bevo con la bocca, no. È un vino ossidato. Lo annuso, Gino mi guarda, sa di mele, di aceto di mele, di succo di mele. Un po’ di mineralità e note floreali, sotto. In bocca è magro, fresco. Sa di mela. Com’è? Sospendo il giudizio. A Gino non piace; al suo giovane collaboratore neppure; l’innominabile lo trova diverso da quelli, stessa annata e stesso produttore, bevuti settimane fa. Sarà il vino poco stabilizzato che muta, si evolve? Poi mi fa notare che sull’etichetta spicca, bello grosso, solo il nome del produttore. Ah, potenza del marchio. Si beve il marchio, non il vino. Si beve con la testa!
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