Azione e reazione

Ad ogni azione corrisponde una reazione. Così ci hanno insegnato a scuola. E i professori non raccontavano bugie. Anche se, crediamo, non intendessero parlare di vino (ai nostri tempi altrochè di moda: roba da osterie!). Così, oggi, di fronte ai tanti che spingono il vino biologico, biodinamico, tradizionale, meno tecnologico possibile –ricordiamo tutti, magari non le parole esatte ma certo il senso, la battuta fulminante dell’ultimo Veronelli: “il peggior vino contadino è migliore del più buono vino industriale”-; ecco, di fronte a questo gruppo d’opinione si è finalmente materializzato un fronte analogo e contrario. Quello di chi vuole che al vino sia applicata la tecnologia più innovativa. La novità non è tanto nelle cose: già da tempo, infatti, le cantine innovano per produrre meglio e a minor costo. La novità è che lo gridino.

Il 9 maggio scorso a Roma è stato infatti presentato alla stampa un vero e proprio manifesto programmatico, firmato da enologi, giornalisti di settore e produttori: “Il vino, il mercato e l’enologia del terzo millennio”. In difesa della modernità e del progresso. Si legge, infatti, nel documento che “negli ultimi quarant’anni il vino italiano ha consolidato la sua posizione nel mondo, raggiungendo dei traguardi che sino a qualche decennio fa erano impensabili… un processo lungo e complesso che ha avuto nell’esaltazione della qualità, dell’origine e della territorialità dei vini il momento fondamentale. 
Tutto ciò però è stato possibile grazie alla rivisitazione sia delle pratiche agronomiche nelle campagne sia all’incessante evoluzione della ricerca e dell’applicazione della scienza enologica nelle cantine”. Dunque non la tradizione ma l’innovazione alla base di questo “deciso salto di qualità, anche dal punto vista organolettico, recuperando quel gap di conoscenze ed esperienze che in passato ci aveva fortemente penalizzato sui mercati internazionali. 
Non solo: ma abbandonando la tradizione “i vini italiani si sono segnalati all’attenzione internazionale per la capacità di rompere gli schemi affiancando alla produzione tradizionale un’ampia schiera di vini che hanno fatto dell’innovazione la loro cifra stilistica e sono riusciti ad interpretare con fantasia e meglio di altri, i gusti e le esigenze del consumatore internazionale, tenendo per altro alta, in un momento molto difficile, l’immagine del vino italiano. I cosiddetti “Supertuscan”, ieri classificati come Vini da Tavola (Vdt) oggi come vini ad Indicazione Geografica Tipica (Igt), sono stati in questo campo l’esempio di maggior successo”.

Per gli estensori del manifesto, dunque, la ricerca e la difesa ad oltranza della tradizione sono aspetti negativi, perché “a fronte di ciò negli ultimi anni si è sviluppata una corrente culturale che vuole imporre una visione che tende a limitare gli orizzonti della ricerca e dell’enologia. Il confronto insomma si è spostato e non è più solo tra conservatori e innovatori. Infatti da una parte c’è chi in nome del rispetto della tradizione considera l’enologia come un sistema chiuso alle novità, sostanzialmente incapace di ascoltare. Dall’altra c’è chi, pur rispettando profondamente l’origine e la storia dei prodotti, vuole esaltare questi aspetti sfruttando tutte le possibilità offerte dalla moderna enologia e tecnologia ad essa collegata, interpretando le sollecitazioni che vengono da un mercato ormai planetario. 
Le discussioni su certi aspetti del nostro mondo del vino hanno evidenziato un preoccupante atteggiamento di chiusura nei confronti dell’evoluzione della scienza enologica e dei mezzi che essa mette a disposizione. L’enologia non può limitarsi ma deve essere in grado di cogliere tutte le opportunità, soprattutto quelle che permettono di abbassare i costi e di aumentare i profitti delle aziende, rendendole sempre più competitive”.

Un medioevo prossimo venturo preoccupa i firmatari che “a diverso titolo” si occupano di vino, i quali esprimono “preoccupazione perché i dati scientifici vengono sistematicamente ignorati, preferendo la banalizzazione degli argomenti all’approfondimento (gomma arabica? trucioli?). Senza adeguati approfondimenti tecnici, scientifici ed economici non si può pensare di affrontare con efficacia la competizione internazionale e incrementare la qualità dei nostri prodotti”.
 Seguono in calce le firme di Andrea Gabbrielli (giornalista), Robero Zironi (professore ordinario Università di Udine), Luigi Odello (Centro Assaggiatori Brescia), Fabio Turchetti (giornalista), Andrea Sartori (casa vinicola Sartori), Piero Mastroberardino (c.v. Mastroberardino), Riccardo Cotarella (enologo), Carlo Ferrini (enologo), Gioia Cresti (enologo), Ezio Rivella (c.v. Pian di Rota), Stefano Campatelli (direttore consorzio Brunello di Montalcino), Barbara Tamburini (enologo), Attilio Pagli (enologo), Alberto Antonini (agronomo, enologo), Paolo Bisol (c.v. Ruggeri), Lucio Brancadoro (ricercatore Università di Milano), Claudio Gori (enologo), Paolo Tommassini (enologo), Vittorio Fiore (enologo), Stefano Chioccioli (enologo), Filippo Mazzei (c.v. Marchesi Mazzei), Nicodemo Librandi (c.v. Librandi), Andrea D’Ambra (c.v. Casa d’Ambra), Franco Giacosa (c.v. Zonin), Michele Farro (Cantine Farro), Piernicola Leone De Castris (c.v. Leone De Castris), Giovanni Dimastrogiovanni (enologo), Roberto Cipresso (enologo), Cesare e Andrea Cecchi (c.v. Cecchi), Rudy Buratti (enologo), Alessandro Candido (c.v. Candido), Giuseppe Martelli (direttore Assoenologi), Sandro Boscaini (Masi Agricola), Alessandro Botter (c.v. Botter), Alberto Canino (c.v. Giovanni Bosca Tosti), Etile Carpenè (Carpenè Malvolti), Renzo Cotarella (c.v. Marchesi Antinori), Lamberto Vallarino Gancia (Gancia), Francesco Ricasoli (Ricasoli), Giacomo Rallo (c.v. Donnafugata), Pietro Alagna (c.v. Carlo Pellegrino).

Il Manifesto ha suscitato la reazioni che si aspettava e la discussione sui blog e sui siti si è accesa. Aspettando che poi tracimi sui giornali e nelle centinaia di tavole rotonde che puntellano la Penisola enoica. “Singolare documento” l’ha definito Fabrizio Penna, direttore del sito Enotime, “a metà strada tra la dichiarazione di intenti e lo sfogo vittimistico”. Un documento che “manca di una visione lungimirante e prospettica e finge di non vedere che il mondo del vino si sta sempre di più divaricando, prendendo strade divergenti. Da una parte c’è chi vede il vino in un’ottica industriale, dall’altra chi invece vuole mantenerlo in un contesto artigianale. La visione industriale cavalca le mode, è marketing oriented e cerca ogni mezzo per abbattere i costi. Il territorio e il vitigno sono sovente visti come entità da plasmare e trasformare per essere messi al servizio del progetto enologico prescelto. Ci si riempie la bocca con frasi ad effetto tipo “la qualità e la tipicità nascono nel vigneto” salvo poi riempire il vigneto con ogni sorta di sostanze chimiche, dai diserbanti agli antiparassitari fino a giungere ai concimi sintetici. In cantina si da per scontato che i mosti abbiano bisogno sempre di ben codificate pratiche enologiche, dall’aggiunta di enzimi pectolitici ai lieviti selezionati (che ormai sono tutti transgenici e spesso creatori di aromi artificiali!!), fino all’aggiunta degli additivi legali più disparati (si va dai tannini per arrivare alla gomma arabica, passando per acidi e sali). L’uso di trucioli o di polvere di legno tostato per aromatizzare il vino viene considerato una pratica idonea per raggiungere velocemente il risultato prefissato”.

“La visione artigianale e naturale –per Penna- invece propugna un ritorno alla terra attraverso un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, utilizzando il sistema biologico o biodinamico; anche in cantina pochi compromessi, pochi o nulli gli additivi e ricorso ai lieviti autoctoni. Purtroppo tra di loro ci sono molti tradizionalisti oltranzisti, che rifiutano in blocco la più comune tecnologia viticola ed enologica, sempre e comunque vista come una contaminazione sia sul piano culturale che qualitativo. Le loro buone intenzioni però sovente si scontrano con una realtà fatta di qualità organolettiche a volte dubbie e con l’impossibilità di conciliarsi con aziende medio-grandi”.

Per il “blogger” Aristide (al secolo Giampiero Nadali), invece visto che “lo scenario del vino italiano non è dei migliori… l’appello è positivo e “tocca questioni fondamentali. Investe la necessità di saper sintetizzare tradizione e modernità per creare nuove opportunità e vantaggi competitivi, dove -per una volta- sia il vino italiano a tentare di porsi come un modello di riferimento. Le innovazioni tecnologiche non vanno intese come un’opportunità per ridurre i costi… deprimendo la qualità della materia prima uva, ma per innovare tecniche e processi nell’equilibrio oggi possibile tra “naturale” e “moderno”, senza ricorrere a ideologie superate o astratte filosofie irrealizzabili al di fuori di piccolissime nicchie di mercato. In questo contesto, tentare la contrapposizione tra conservatori e innovatori non ha molto senso”.

Intanto all’appello hanno aderito anche Andrea Sartori, presidente Unione Italiana Vini (Uiv), convinto che il freno alla ricerca e all’evoluzione delle tecniche enologiche comporti “costi di produzione onerosi che possono rendere i vini italiani poco competitivi di fronte a Paesi produttori sempre più aggressivi, che invece continuano ad andare avanti nei progressi tecnici”; nonché le Città del Vino del presidente Valentino Valentini. Per quest’ultimo, però, il problema non starebbe tanto “nella contrapposizione tra conservatori e innovatori, ma nell’identificazione di quelle novità che siano realmente strumento di miglioramento della qualità. Le opportunità da cogliere richiamate nell’appello non devono essere legate dunque esclusivamente al mercato, perché così facendo si corre il rischio di piegare alla pura logica del profitto ogni possibile scelta, anche quelle che rischiano di banalizzare il prodotto”.
E voi cosa ne pensate?

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