Un’ipotesi di itinerario nel tempo e nello spazio
I rapporti, i fili fra l’antico Egitto e il Verbano Cusio Ossola sono lunghi e sottili. Lunghi per la distanza fisica e temporale; e sottili per esiti e testimonianze.
In Ossola operarono in passato due egittologi di fama: Giuseppe Botti di Vanzone San Carlo (1889 – Firenze 1968), ricercatore e professore universitario in Italia e all’Estero, egittologo di chiara fama e Commendatore della Repubblica, a cui è dedicato un attivo centro studi a Domodossola (Centro Italiano di Egittologia “Giuseppe Botti”- Cieb); nonché il medico di origine vigezzina Giacomo Pollini (Parigi 1827 – Torino 1902) che fra le altre cose donò la maggior parte dei reperti egizi esposti a Palazzo San Francesco a Domodossola, nel 1889. Era appassionato di storia e visitò l’Egitto in un’epoca in cui i progressi negli studi egittologici, le grandi scoperte archeologiche e la formazione di importanti collezioni e musei – come il Museo Egizio di Torino – amplificavano il fascino che questa terra esercitava sulle culture occidentali.
La Bacheca dell’Antico Egitto nel Palazzo San Francesco – Musei Civici Gian Giacomo Galletti, Domodossola
Leggiamo sul pannello che spiega la Bacheca a Domodossola: “I reperti, acquistati sul mercato antiquario, provengono da contesti funerari, verosimilmente della necropoli di Tebe. Questi oggetti ci raccontano quindi uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti la cultura antico egizia: la ritualità funeraria. Gli Egizi credevano in una vita ultraterrena del tutto simile a quella mondana, accessibile però solo se venivano rispettati rigidi criteri di deposizione del defunto, che implicavano il ricorso a procedure e oggetti ben precisi, volti a preservarne il più possibile l’integrità fisica e spirituale. I reperti esposti possono essere raccolti in tre categorie, che corrispondono ad altrettante fasi del rituale di deposizione: una prima categoria composta da resti mummificati, umani e animali, e da un frammento di vaso canopo (trattamento e conservazione del corpo); un secondo gruppo con un frammento di sarcofago, uno di pettorale, una maschera funeraria e una copertura per mano di mummia (protezione fisica), e infine un terzo gruppo con vari esemplari di amuleti e ushabty (protezione spirituale).
I resti umani mummificati (nn. 6-9) documentano la cura riservata al procedimento di imbalsamazione del defunto, necessario a garantirne la sopravvivenza oltremondana attraverso la conservazione fisica del corpo. La mummia di sparviero (n. 11) testimonia come la procedura venisse applicata anche agli animali, ritenuti sacri in quanto manifestazioni delle divinità: lo sparviero, o falco nisus, era l’animale sacro al dio Horus, uno degli dèi più importanti del pantheon egizio.
Il processo di mummificazione prevedeva, tra le altre cose, l’asportazione delle viscere: polmoni, stomaco, fegato e intestini venivano a loro volta imbalsamati e custoditi in appositi recipienti, i canopi, di cui è esposto un frammento (n. 10).
Concluso il rituale di mummificazione, il corpo veniva deposto all’interno del sarcofago. Il frammento di sarcofago ligneo esposto (n. 2) è uno dei reperti più interessanti della collezione: si tratta di una porzione del coperchio di un sarcofago interno, di tipo antropoide, appartenente, secondo l’iscrizione geroglifica, a Thutmosis, verosimilmente un sacerdote del santuario di Amon a Karnak, vissuto all’epoca della XVIII dinastia (1550-1292 a.C. ca.). A ulteriore protezione della mummia, direttamente sul bendaggio, poteva essere posta una copertura, in cartonnage o legno, dipinta e decorata a riprodurre, in genere, una maschera funeraria, un pettorale e delle calzature. Il frammento di pettorale in cartonnage (n. 4) è dipinto con figure di divinità protettrici. Si conservano, inoltre, una maschera funeraria (n. 1) e una copertura per mano (n. 3), entrambe in legno.
Prima di sigillare il sarcofago, la mummia veniva adornata con amuleti per proteggere il defunto dai pericoli dell’Aldilà. È esposta una vasta gamma di esemplari (nn. 13-17), raffiguranti numi tutelari (Sekhmet, Bastet, Bes, Taueret, Iside, Osiride, Horus), animali sacri (leone, ariete, rana, scrofa, falco) e simboli divini (occhio udjat, scarabeo, papiro uadj). Un altro elemento imprescindibile del corredo funerario erano gli ushabty (nn. 18-21), statuine realizzate a immagine del defunto, con il compito di assolvere ai suoi doveri nell’Aldilà. Uno in particolare fra quelli esposti ha grande valore documentario (n. 18), poiché, come testimonia l’iscrizione geroglifica, appartiene a un principe reale e sacerdote di Amon, Djeptahiufankh (XXI dinastia), la cui mummia fu scoperta dall’egittologo Gaston Maspero nel 1881 nella famosa cachette di Deir el-Bahari.
Le sepolture in stile egizio nel Verbano
Il Verbano non ha una sia pur piccola e significativa raccolta di reperti, né vi furono avventurosi egittologi. Però anche in questi luoghi di soggiorno il fascino dell’antico Egitto fece presa, l’egittomania come venne definita. Una piramide è infatti presente nel giardino della villa Della Solitudine di Oggebbio. Fu fatta costruire dal dottor Giovanni Polli, medico, grande benefattore per il Comune di Oggebbio. Nel 1876 effettuò la prima cremazione umana in Europa al cimitero monumentale di Milano. Nella “Villa della Solitudine” sul lungolago di Oggebbio, realizzò i primi esperimenti crematori e il 16 agosto 1875 inserì nel suo testamento il seguente codicillo: “Ora aggiungerei che nella piccola piramide fosse collocato l’avanzo della combustione del mio cadavere”.
Nel cimitero monumentale di Pallanza Verbania, vi è invece la tomba in stile egizio di Giuseppe Branca (1904), ideata dall’architetto Luigi Broggi. Raffigura un grandioso tempio egizio in rovina, con bassorilievi in stile antico Egitto. Di pregevole fattura e rimarchevole nel complesso.
Il Design egiziano nel Cusio
Nel 1992, il designer milanese Alessandro Mendini realizzò per Alessi di Crusinallo una serie di vasi 100% Make Up. 100 autori tra architetti, designer, grafici, artisti e autori appartenenti a culture alternative furono invitati a creare il proprio “racconto visivo” per decorare ciascuno, grazie a delle decalcomanie, 100 copie del vaso disegnato da Alessandro Mendini stesso.
Il riferimento era proprio ai vasi canopi dell’antico Egitto, perché voleva richiamare una certa ritualità/sacralità legata all’oggetto vaso. Un egittomania più serena e meditata, ma pur sempre un filo, dei fili che uniscono le terre del nord Piemonte con quelle bagnate dal Nilo migliaia di anni fa.