La Grammatica della Cucina

Giorni fa, ho seguito la lezione di Andrea Sinigaglia (docente ad ALMA, storia della cucina italiana, collaboratore di Massimo Montanari e Paolo Massobrio) ed ho avuto un’illuminazione tenue. Sì, proprio un lumino: ti muovi nella foschia e non sai dove andare. E poi arriva qualcuno e ti dice: “secondo me, si deve andare di là!”. Spiegandoti anche il perché. Non un invito metafisico, fideistico, ma una razionale spiegazione. Una teoria, una risposta, forse la verità. Nulla di più. Ma è tantissimo. Le stesse sensazioni le ebbi quando partecipai ad un master con Luca Maroni: lui mi disse “per me il vino è buono quando è così”, insegnandomi ad essere autonomo nei giudizi, a bere il vino nel bicchiere e non nella testa (ricca di “chateau”, “aia” e quant’altro). Insegnandomi un metodo di ragionamento.

Così è stato anche con Sinigaglia. Questa volta nella cucina. Ma cosa ha detto il Professore? Ha parlato della cucina, ricordando a tutti che il “mangiare è un’esperienza culturale” (credo di averlo sentito dire anche a Montanari), “un abbraccio, un amplesso… ore di piacere effimero, intrattenimento, comunicazione di un bene, di un “essere voluto bene”. E siamo tutti d’accordo. Poi ha parlato della storia della cucina italiana, del rapporto fra latini (olio, vino, pane) e barbari (maiale, birra, grasso); del “commestibile –dunque- come fatto culturale”; del nostro medioevo “laboratorio del gusto, in cui sono state sviluppate le regole del gioco gastronomico (il bon ton, per capirci). Ma si è anche definita la “grammatica del gusto”, si è fatta ricerca, si sono definite la “buone maniere”. In un’Italia figlia delle realtà comunali e senza un centro. Insomma, la “cucina italiana per la sua storia non può essere un codice, ma uno stile… in cui la ricerca continua segue uno filo conduttore consolidato”. Non un ricettario, dunque, neppure quello di Benedetto Artusi che “è infatti una collezione di italianità”, una cucina “dell’eleganza e non del lusso, una cucina della semplicità e non della banalità”… la cucina italiana, dunque.

Già una bella e facile definizione, non c’è che dire, però Sinigaglia ha proseguito con alcune considerazioni sulla cucina, idee sviluppate all’interno di ALMA. “Cucinare è come scrivere”, ha detto. “Gli ingredienti sono la morfologia, leggibile e scrivibile”. La “sintassi è la capacità di mettere insieme le parole”, per fare frasi di senso compiuto; diverse, ma sempre di senso compiuto, aggiungo io. Infine c’è lo stile. Ovvero “la retorica… che è il discrimine fra un cuoco ed un grande cuoco”. La cucina italiana è una cucina “di oggettivazione” e non “di aggettivazione, come quella francese”. Le salse per la cucina italiana “sono avverbi e non aggettivi”. Non servono per qualificare il soggetto, ma semmai per dare una sfumatura di senso più esatto al piatto. Per i francesi è il contrario. Mi viene in mente la pasta. O il risotto.

E ancora: “i grandi cuochi sanno adattarsi ai tempi, capire che questa è l’era del “finger food”, proprio perché siamo nell’era del lavoro in punta di dita”. Il cliente oggi “vuole gusti antichi presentati con modalità di produzione e di consumo moderni…”. Poi, mentre, stava incominciando a farci vedere piatti e preparazioni, mi è vibrato il telefonino e sono dovuto andare via… però è un inizio di chiarezza, alcuni punti fermi con cui confrontarsi. Non ho colto il “sinigaglia-pensiero” nella sua totalità, ma già vedo più luce. Mi sembra più chiaro giudicare, farsi un’opinione motivata… Così anche di fronte a degli spaghetti al pomodoro ora so di essere di fronte ad “un atto culturale”, ad un pezzo della nostra storia, della mia… e di Giuseppe che, l’altra sera, mentre mi regalava un pacco di candele Garofalo, mi prendeva in giro: “io le farei cuocere cinque o quattro minuti. Tu dodici”. Ironico chef campano: la sua storia non coincide del tutto con la mia.

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