La cicogna e il corvo in fricassea

Ah aha, che ridere! Un gatto ha fatto perdere il posto a Bigazzi; una valle qui a lato è piena di mangiatori di gatti e di volpi; più a nord, in Ossola, si mangia la marmotta (di nascosto, è vietato); se hai pazienza, puoi assaggiare il tasso (ma è piccolo e ce ne vogliono); il mio vicino mangiava il riccio… e ancora: chi va in Thailandia non si esime dal mangiare il serpente, in Cina si può provare il cane… ogni tanto, si assaggiano gli insetti… ahahaha… poi ricordi che i romani mangiavano il pavone, la murena (di cui erano ghiotti) e condivano il tutto con una salsa, il garum, che forse era di pesci frollati, tipo la colatura di alici per capirci… troppo divertente! Quello dei tabù alimentari è puro divertimento culturale: quando hai bisogno di attirare l’attenzione, crei un format televisivo, ne parli, fai un libro, organizzi degustazioni o, di contro, crei gruppi di facebook per protesta, twitty all’impazzata, ti fai intervistare dalla tv locale per far salire l’audience… ma che ridere!

Leggo su “Libero” questa notizia: “cicogna arrosto, volpe alla brace, spezzatino di tasso. Porcospino al sugo, stracotto d’asino, cigno con le arance. Perfino gatto in umido e ragù di corvo. Ricette impensabili, politicamente scorrette, per qualcuno probabilmente disgustose. Eppure tutte parte della tradizione secolare culinaria italiana, come spiega Tebaldo Lorini nel suo libro ”Ricette proibite” (Polistampa, pp. 80, euro 10), un volume destinato a suscitare discussioni e polemiche che uscira’ il 1° marzo in libreria.”

Ma sì, bravo il Lorini, che ha trovato un argomento di sicuro interesse e che venderà copie su copie (una la prendo io!). Sul nulla. In natura, infatti, ciò che non avvelena, si può mangiare. Vero. Poi scegliamo. Noi di oggi, loro di ieri, loro di vicino e loro là lontani… I tabù alimentari sono frutto di storie e culture diverse e, forse, un giorno spariranno. Per ora sono argomento di chiacchiere fine se stesse.

Una nota locale, però. Passi che per un anglosassone sia riprovevole mangiare un cavallo o un asino, ma non immaginavo che detta carne destasse la curiosità, fosse un tabù diffuso, nel nostro Paese al pari della carne di corvo o di cicogna. Qui, nel nord Piemonte, è infatti comune. Borgomanero, secondo borgo del novarese, ne ha fatto il suo piatto tradizionale. Con una bella leggenda. Leggiamo sul sito del Comune che “Il piatto principe della gastronomia borgomanerese è indubbiamente il Tapulone, che la tradizione popolare ricollega alla leggendaria vicenda dei 13 pellegrini della Bassa da cui sarebbe stato fondato il borgo, i quali, per vincere la fame, altro non poterono che sacrificare l’asino che conduceva il loro carretto.

Ma ecco la ricetta. Valida, s’intende, per quattro persone. Ebbene, occorre 1 kg di polpa d’asino macinata grossa, una testa d’aglio, un cucchiaio d’olio, sale, pepe, chiodi di garofano e, naturalmente, qualche foglia di lauro. Il tutto innaffiato da vino rosso delle nostre colline (i vigneti non mancano, dalle coste di Caristo che regalano anche il miglior bianco della provincia, a San Michele, fino alla Cirella ed alla Cumiona). Ma torniamo al tapulone. La testa d’aglio va schiacciata in una casserruola con l’olio a fuoco vivo fino a farla friggere, quindi (in attesa di aggiungere i chiodi di garofano,le foglie di lauro ed il vino) va versata la carne con sale e pepe. Un’ora di cottura e tutti a tavola.

La leggenda del tapulone

“È andata così: al tempo dei tempi, tredici omaccioni che tornavano dall’isola di San Giulio sul Lago d’Orta, dove si erano recati a venerare le spoglie del Santo Protettore dell’Alto Novarese, giunti là dove ora è Borgomanero, avvertirono d’un tratto stimoli mai provati di un appetito che potremmo meglio chiamare fame. Era stata a ridestarli l’aria fresca e sottile che vi rifluisce dal Monte Rosa e che, da tempo immemorabile, vi fa prosperare quella che usa chiamarsi industria alimentare.

Senonchè i “nostri”, presi dal sacro fervore del pio pellegrinaggio, avevano dimenticato di rinnovare le provviste, e le bisacce cadevano desolatamente vuote sul dorso dell’asinello che li aveva seguiti nel lungo cammino. E poichè questo rosicchiava in quel momento con evidente soddisfazione un cardo offer­tosi alla sua onesta fame, fu suggerito da qualcuno che con uguale soddisfazione lo stesso asinello avrebbe potuto essere rosicchiato dagli affamati padroni, i quali, senza attendere oltre, si diedero a farne braciole. Pare tuttavia che queste rivelassero insospettata durezza, talché fu d’uopo ridurle in minuti frammenti e tenerne la pentola lungamente al fuoco.

Sortì una vivanda che i “tredici”, giudicarono eccellente, e che li dispose siffattamente all’ottimismo da indurli a non riprendere il viaggio e a stabilirsi in un luogo che loro sembrò rivelato da San Giulio in persona. Il villaggio che ne nacque, è, col passare dei secoli divenuto città, e i suoi abitanti hanno da gran tempo dimenticato gli usi dei lontanissimi fondatori: non già però la vivanda che è forse all’origine della loro fortuna. E, sostituita con tenera carne di manzo finemente tritata quella bonaria dell’asino della storia, la gettano su un soffritto d’olio e burro profumato da rosmarino, lauro ed aglio; quindi la cuociono a fuoco lento, e quando tutto il sugo è assorbito, la mantengono umida e morbida irrorandola di buon vino nero. Dopo un’ora o poco più tutto è pronto, e può essere servito, meglio se con polenta ben cotta, e se sposato al generoso vino delle colline che si stendono da Maggiora sino a Gattinara e a Ghemme.

Quanto al nome di simile “bontà”, è rimasto sempre lo stesso, e nella non facile lingua locale si pronuncia così: “taplón”. Invano si è tentato di tradurlo in “tapulone” o, peggio, in “tapellon” dai fanatici del volgare… Ad essi però va riconosciuto il commendevole intento di diffondere la saporita vivanda che è tuttora privilegio di un solo paese: Borgomanero, appunto”.

Chissà se il ragù di corvo ha un’epica simile?

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