I Formaggi del Re e della Regina

Pubblico i miei appunti di una breve relazione tenuta per conto dell’Ecomuseo Cusius, a maggio, presso il Museo della Latteria turnaria di Casale Corte Cerro. Appunti appena appena ordinati, ma interessanti per i contenuti e le riflessioni collegate. Buona lettura! Ah, dimenticavo, il titolo è messo come spunto di partenza e non come sintesi dei contenuti… Nessuna nobiltà, dunque, ma tanta concretezza borghese…

I formaggi fatti bene sono tutti buoni. Sono, per così dire, “nobili”. Sono buoni perché hanno un buon profumo, un sapore piacevole e, non meno importante, una storia. I formaggi cattivi hanno poco profumo (o non ne hanno) e poi in bocca poco sapore, spesso solo un untuoso e salato, e sono misteriosi. In zona si fanno degli ottimi formaggi con storia; a volte mediocri; rarissimamente cattivi.

Fra i formaggi locali buoni, come direbbero gli inglesi, by appointment to her majesty the queen, degni del Re e della Regina, segnalerei molti gorgonzola dop (che è cambiato rispetto al passato), la toma dop (fra cui il bettelmatt), i caprini e il burro (che non è un formaggio), magari scuro. Il burro, poi, non fa male. Si può usare senza abbondare. Una volta era più importante del formaggio, anche se in Italia se lo ricordano in pochi. E comunque nel risotto è meglio; la carne ha un altro sapore; lasciamo stare i dolci… Ma torniamo ai formaggi.

Perché ci sono in giro tanti formaggi cattivi? Perché sono stati trasformati in commodity (singolare di commodities) e dunque quel che conta è la loro disponibilità e il prezzo. Non il loro sapore, la loro originale personalità. Anzi…meglio che siano sempre uguali. Per cui, meglio che sappiano di poco. Così sì è aperto il mercato alla delocalizzazione della loro produzione (vedi il caso del gran moravia), delle dop aperte e del cambiamento epocale ed antiecologico della produzione del latte (altra commodity), fino all’utilizzo del latte in polvere. E una possibile multa da parte della UE all’Italia.

I formaggi, secondo la normativa italiana, vengono infatti prodotti a partire da latte intero o parzialmente scremato delle diverse specie animali (bovini, ovini, caprini), sale e caglio; a questi ingredienti possono essere aggiunti i fermenti lattici, chiamati anche innesti (per facilitare la caseificazione quando il latte viene sottoposto a pastorizzazione), muffe particolari come nel gorgonzola, spezie di vario tipo (zafferano, cumino, pepe, ecc.). Non è ammessa comunque l’aggiunta di altre sostanze.

Dal 11 aprile del 1974, con la legge n. 138, l’Italia ha deciso di vietare l’utilizzo di polvere di latte per produrre formaggi, yogurt e latte alimentare ai caseifici situati sul territorio nazionale. Questa misura aveva ed ha lo scopo di mantenere alta la qualità delle produzioni casearie italiane. Per la Comunità Europea si tratta invece di una indebita restrizione alla “libera circolazione delle merci” e alla concorrenza. Di conseguenza lo scorso 28 maggio la CE ha recapitato all’Italia la lettera di costituzione in mora, primo passo al quale è seguita la procedura di infrazione n. 4170. Dal punto di vista sanitario non esiste nessun problema all’utilizzo di polvere di latte per la produzione casearia, ovviamente se non si tratta di prodotti DOP o PAT. Anzi è una limitazione senza senso perché molti dei formaggi e degli yogurt provenienti dagli altri paesi della comunità e liberamente venduti nei nostri negozi sono fatti con latte in polvere. Dire che sono buoni, però… Meglio scegliere altro.

Senza dubbio i marchi DOP, STG, IGP sono una garanzia di autenticità e di italianità del prodotto (almeno per quanto riguarda i formaggi), ma dal punto di vista dei controlli non c’è differenza, cioè l’attività ispettiva viene eseguita allo stesso modo anche per i formaggi non marchiati. I formaggi marchiati subiscono dei controlli ulteriori da parte dei relativi Consorzi di appartenenza, per verificare che il “Disciplinare” – il testo normativo che spiega come deve essere fatto quel formaggio -, sia stato rispettato.

Il marchio DOP ed IGP

DOP indica la Denominazione di Origine Protetta: tutto ciò che concerne l’elaborazione del prodotto ha origine nel territorio dichiarato, che conferisce al prodotto tutte le sue qualità. Quindi affinché un prodotto sia DOP le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione devono avvenire in un’area geografica delimitata.

Il marchio IGP

Il marchio IGP segnala l’Indicazione Geografica Protetta; il territorio dichiarato conferisce al prodotto, attraverso alcune fasi o componenti della elaborazione, le sue caratteristiche peculiari, ma non tutti i fattori che concorrono all’ottenimento del prodotto provengono dal territorio dichiarato. Per ottenere la IGP, quindi, almeno una fase del processo produttivo deve avvenire in una particolare area. Così, ad esempio, la Bresaola della Valtellina è prodotto IGP e non prodotto DOP perché ottenuta da carni di animali che non sono allevati in Valtellina, pur seguendo i metodi di produzione tradizionali e beneficiando, nel corso della stagionatura, del clima particolarmente favorevole della zona. Per i formaggi l’unica IGP è il Canestrato del Moliterno. Il latte ovicaprino proviene da Comuni delle provincie di Matera e Potenza, ma la stagionatura può avvenire solo a Moliterno che è in provincia di Potenza.

Il marchio STG

Il marchio STG indica la Specialità Tradizionale Garantita. Si parla talvolta anche di Attestazione di Specificità. Questa denominazione spetta agli alimenti ottenuti da materie prime o ingredienti utilizzati tradizionalmente o con un metodo di produzione tradizionale in uso in Italia da almeno 30 anni, ma non è legato ad un territorio (mozzarella). La STG si rivolge a quei prodotti agricoli e alimentari che abbiano una “specificità” legata al metodo di produzione o alla composizione legata alla tradizione di una zona, ma che non vengano prodotti necessariamente solo in tale zona. In Italia abbiamo 48 DOP (in Francia 45), 1 IGP e 1 STG. In Piemonte ci sono 6 DOP esclusive e altre 3 condivise con altre regioni (gorgonzola, taleggio, grana padano). Inoltre abbiamo circa 50 PAT: Prodotti Agroalimentari Tradizionali.

Il Biologico e il Biodinamico

La zootecnia biologica è complementare alla produzione vegetale condotta con tale metodo. Infatti, un’azienda biologica “ideale”, basata sulla sostenibilità e sull’utilizzo di risorse rinnovabili e native, non può prescindere dalla presenza di animali. Questi, in qualità di collaboratori sistemici, hanno la capacità di utilizzare risorse altrimenti poco interessanti dal punto di vista mercantile (es. leguminose foraggere), in cambio di fertilizzanti naturali oltre che di produzioni di elevato pregio nutrizionale.

Il legislatore ha definito gli obiettivi della zootecnia biologica nei considerando e nell’art. 3 del Reg. (CE) 834/2007. Il primario è quello del benessere animale, sia in termini di salute che etologici. Ulteriori criteri sono indicati nei principi di base dell’agricoltura biologica, ed associano il benessere animale alla tutela della loro salute, alla scelta di razze adatte alle condizioni locali ed infine al “fattore terra” (artt. 4 e 5). L’ultimo requisito si traduce in un sistema produttivo basato da una parte sulla presenza di terreno destinato al pascolamento degli animali; dall’altra in un numero massimo di animali per unità di superficie aziendale. Il benessere è inoltre ricercato mediante le cure, le superfici di ricovero, l’alimentazione e le condizioni di vita degli animali allevati.

I prodotti biodinamici hanno tutte le caratteristiche dei prodotti provenienti da agricoltura biologica e sono sottoposti infatti allo stesso regime di controllo e certificazione.

Rispetto a quella biologica, l’agricoltura biodinamica utilizza le stesse tecniche più altre, derivanti dagli insegnamenti di Rudolf Steiner (1861-1902) e ormai consolidate in decenni di sperimentazione. In particolare, l’azienda che pratica l’agricoltura biodinamica è considerata un organismo vivente, dove la produzione vegetale si integra con l’allevamento animale che fornisce il giusto concime per le coltivazioni.

Tiene conto inoltre dei cicli astronomici e lunari nel calendario delle lavorazioni. Il terreno è trattato come un enorme laboratorio, “dinamizzato” con preparati a base di sostanze naturali e letame, per incrementare la sua vitalità e le sue difese.

I PAT

Vengono definiti PAT i prodotti agroalimentari e agricoli caratterizzati da metodiche di lavorazione, conservazione, stagionatura consolidate in un dato territorio da almeno 25 anni: essi sono inoltre strettamente vincolati a fattori quali la tradizione, il territorio, le materie prime e le tecniche di produzione (in Piemonte: caprino della Val Vigezzo, ossolano, tomino di Talucco, seirass o ricotta piemontese, maccagno, ecc)

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