Sarà anche elegante il gesto di
sputare il vino in degustazione, ma io lo trovo immorale. Il vino è
cibo e il cibo è sacro. E dunque, giù tutto per evitare di buttarlo
via e per sentire meglio freschezza e retrogusto. Poco per volta, per
carità, ma assaggio dopo assaggio il gioco si fa serio…
E così è stato alcune sere fa, nella bella Azienda Le Piane di Boca (Novara), dove ho partecipato ad una verticale di vini aziendali (ma non solo), accompagnato in degustazione dal proprietario, Christoph Kunzli, nonché guru della piccola zona doc dell’alto Piemonte, nonché illuminato imprenditore, nonché signore simpatico e alla mano. Tanti bei discorsi e tanto vino assaggiato. Vini naturali e di qualità, buoni, artigianali, di alta gamma; senza i difetti dei cosiddetti “vini naturali”. Tanto nebbiolo ma anche vespolina e un po’ di sangiovese. Cosa abbiamo assaggiato? Una Maggiorina del 2014, un Boca doc del 2011, un Boca doc del 2009, un Chianti Classico docg Poderi Palazzino del 2011 (un amico, collega e partner del padrone di casa. Un vino per fare un confronto), un Plinius del 2007, un Boca del 2006, un Boca doc del 2005, un Boca del 2000 e un Boca del 1975. In più, alla fine, sono apparsi altri due vini, fuori linea. Che galoppata! Che ottima bevuta!
Che dire? Che i vini del nord Piemonte
sono caratterizzati da freschezza e tannicità longeve, corpo e
bouquet ricco ma delicato. Sono ottimi anche dopo molti anni! Qualche
difetto ossidativo solo nel 2000 e, ovviamente, molti nel 1975! Però
che vini longevi e asciutti e caldi e profumati e corposi.., che
incredibile “tracannata”!
Se
metto il compasso sul mio lago, il Lago d’Orta, dove vivo; se
metto il compasso sulla cartina e calcolo un centinaio di chilometri
trovo almeno cinque ristoranti segalati dalla bella guida on line
50Topitaly. Una Guida che distingue in base a fasce di prezzo.
Nel mio compasso gastronomico, cioé le distanze che potrei
percorrere per andare a cena, ritrovo alcuni nomi noti e qualche
sorpresa.
Nella
fascia di prezzo oltre 120 euro, svetta ma solo al 18mo posto,
Villa Crespi di Orta San Giulio (No) dell’Antonino nazionale.
Un ristorante che “svetta su una delle sponde del lago d’Orta.
Si ha l’impressione di arrivare in un castello delle fiabe tanto se
ad accogliervi sarà il sottile velo di nebbia autunnale, tanto se
sarà il cielo terso della primavera. E’ una fiaba che si declina
sempre romantica, assecondando le stagioni e i colori del lago e
della natura” dice l’anonimo censore. E la cucina? “ Una
cucina che fa sognare per ingredienti ricercati, abbinamenti e
estetica delle preparazioni. L’anima partenopea dello chef è
spesso presente in una carta ampia che prevede anche due proposte di
degustazione. Percorsi che consentono di assaporare sia alcuni dei
più riusciti piatti storici che qualche recente creazione. Non si
può arrivare qui e non trovare il piccione con fegato grasso al grué
di cacao e salsa al Banyuls. Una vera golosità per gli amanti del
volatile. Anche la triglia melanzana e provola affumicata è
assolutamente da provare, raccoglie infatti da anni continui
estimatori. Due piatti simbolo non a caso diversi tra loro perché la
mano in cucina si muove sicura sul fronte delle carni come su quello
del pesce. Gioca tra tecnica classica d’ispirazione francese e
contrappunti contemporanei sottolineati dai profumi del mediterraneo
(sic!)”.
Un
po’ più a ovest, a Vercelli, e un po’ più in giù in
classifica (41mo posto) trovo i fratelli Costardi, con il loro
Christian & Manuel Ristorante di cui si dice che è “un
piccolo albergo a conduzione familiare della provincia italiana,
nella periferia vercellese”, in cui “troverete una delle
cucine più interessanti del Bel Paese… Nel menù troverete una
sezione intera dedicata ai risotti. Oltre venti risotti in carta,
anche per una persona. Si passa dalla tradizione dura e pura, quella
della Panissa alla vercellese, con fagioli e lardo, fino a quelli più
innovativi e fantasiosi come quello con pesto di salvia e lime o il
sottobosco di carnaroli. Però oltre ai risotti c’è di più. Una
cucina molto interessante che si divide nella parte salata e in
quella dolce. La crema di patate, baccalà mantecato e noce moscata,
la triglia in oriente e lo scampo in saor, sono tre assaggi centrati
e concentrati. L’animella, cavolo pack choi, salsa al marsala ed il
piccione in due servizi, sono da provare, perché convincono,
chiuderanno la vostra cena salata. Capitolo a parte per i dolci”.
Nella
fascia di prezzo fino a 120 euro, ancora Orta San Giulio,
con il ristorante La Locanda di Orta, al 34mo posto della
classifica. Del locale si dice che ”tutto è perfetto, a partire
da una location che affaccia sul borgo antico d’Orta, un sacello
medievale di bellezza e atmosfera, proteso sul lago (e la vista dalla
terrazza della Locanda è mozzafiato)”. Mentre della cucina:
“tecnica, forme, passione, la percussione continua degli
agrodolci che, oltre a essere divertente, imprime un marchio di
fabbrica alla cucina di Andrea Monesi,
purosangue della ricerca che, nemmeno trentenne, vince su tutta la
linea”.
Una
sorpresa nella categoria Low Cost, visto che al 50mo posto c’è
la Bocciofila di Borgomanero (No), tempio delle tradizione.Del
ristorante si legge che “è un’istituzione del “fatto in
casa” e di una cucina baricentrica che guarda a Piemonte e
Lombardia, con i punti di contato di risotti e paste ripiene che,
qui, sono il pezzo forte della scena”. Del localeaggiunge che
“primo attore è Giancarlo Rebuscini, il
burbero chef patron che, talvolta, fa capolino in sala. Il copione è
consolidato: i salumi di tradizione, ma anche l’insalata di
gamberi; oppure gli agnolotti al sugo e risotto alla Parmigiana o al
Gorgonzola. Anche le altre paste meritano l’assaggio come i
maccheroncini che sono autoprodotti giornalmente. Imperdibili, quando
di stagione, i bolliti e il soufflè che qui è magistrale come il
tapulone d’asino, piatto simbolo di Borgomanero, che non ha eguali
per intensità e armonia”.
Un
po’ più in là del Lago, nella categoria Trattorie; un po’
più verso il Piemonte vero e proprio c’è la Valsesia ed è
proprio lì che si trova l’Hosteria dei Bricai, a Rassa
(Vc), 46mo posto in classifica. Un locale “ minuscolo come
il paese: legno e pietra nelle due sale gestite da Chiara
Maccagnan”. Ed una cucina “felice… di Giorgio
De Fabiani che dalla valle prende il meglio dei prodotti
(le tome di Alagna, le carni di Ottone a Scopello, il pane di Eugenio
Pol “Vulaiga”) e li elabora con sperimentazioni anche ardite,
come nel caso della polentina concia con la ‘salama da sugo’
ferrarese”.
Ecco,
questi sono i locali in cui, ragionevolmente, meglio il mezzogiorno,
posso andare e poi tornare senza troppa fatica. Ovvio che ce ne sono
altri, ma questi segnalati sono sicuramente da provare (quelli che mi
mancano).
La battuta era scontata: sette formaggi
per sette fratelli (o sorelle, vedete voi). Ma il titolo non
c’entrava nulla con l’argomento. Dovete sapere che sono stato
invitato anch’io alla serata a Domodossola in cui sono stati
presentati i sette bettelmatt dell’estate appena finita. Sede la
bella pizzeria ristorante Terminus (che ha una bella sala
destinata alle degustazioni), una settimana fa.
Io ero stato invitato da Elena Maffioli, giovane esperta di wermuth, e la ringrazio ancora della stima accordatami (e per il wermuth che ci ha fatto poi assaggiare!).
I sette bettelmatt erano stati prodotti
da latte munto in alpeggio a fine agosto. Obiettivo del relatore, il
noto assaggiatore di formaggio Mauro Mottini, dimostrare che i
bettelmatt dei sette alpeggi erano sì simili ma diversi. Questo
grazie alle diverse erbe che già la quota seleziona e che
selezionano gli stessi animali, muovendosi 10-12 chilometri al giorno
alla ricerca di verde pregiato. Li abbiamo assaggiati tutti, dunque,
con grande attenzione, concedendoci solo pane sciocco ed acqua piatta
ad accompagnare.
Premetto subito che erano tutti buoni,
tutti con un retrogusto amarognolo sul finale (più o meno
accentuato), tipico dei formaggi di alpeggio; tutti grassi e morbidi
ma elastici al tatto; tutti con crosta diversa. Tutti buoni, mi
ripeto. Buoni perché profumati di latte, di erbe; dal sapore pieno,
dal boccone soddisfacente… Ma per me difficile comprendere se le
sottili differenze erano date dall’alimentazione delle bovine o dalla
mano del casaro. Posso solo dire che, per sensazioni anch’esse
difficili da spiegare, ne ho preferiti alcuni rispetto ad altri.
I sette bettelmatt erano quello di
Olzeri dell’Alpe Sangiatto; quello di Scilo dell’Alpe
Toggia; di Berardini del Kastel; di Bracchi del Poiala;
di Brami del Bettelmatt; di Matli dell’Alpe Forno; di
Pennati dell’Alpe Vannino. Ed io ho preferito quello dell’Alpe
Poiala e quello dell’Alpe Vannino. Di poco da me preferiti agli
altri. Ma è solo un giudizio individuale, visto che lì al tavolo
altri avevano preferito altri. Meglio chiudere dicendo che i
bettelmatt, il bettelmatt prodotto da latte di bovine all’alpeggio,
il bettelmatt dei sette diversi alpeggi, è un ottimo formaggio. Un
ottimo formaggio con sottili sfumature, tutte da scoprire.
Leggo che c’è un signore di 55 anni,
un italiano, che dorme in stazione ad Arona (No). Ovviamente, il
giornale calca sul pietismo, ma nulla dice sul fatto che un signore
in età lavorativa non abbia soldi per affittare una stanza. Non
lavora? Come mai? Ad Arona sono andato a mangiare in una moderna
Osteria che si chiama Anticogallo. Ed ho mangiato assai
bene: cucina tradizionale piemontese, nordica, italiana. In cucina
però una signora marocchina; una signora garbata e silenziosa e
lavoratrice come sanno esserlo le persone che cercano, lavorano,
rispettano… Cucina bene della cucina tradizionale italiana. Lei
lavora e l’altro no. Non poteva imparare anche lui a cucinare, magari
il kebab, e trovarsi un lavoro invece di reclamare la pubblica
carità? Bah, mi sbaglierò e sono pronto a cambiare idea, ma mi
sembra una malattia sociale più che altro.
Sabato sono ad Asti, dagli amici
dell’agriturismo Ca’ d’ Pinot per il Bagna Cauda Day.
Bellissima iniziativa per un piatto tradizionale, saporito. Bella e
barbarica mangiata. Tutto ok? Sì, da promuovere e diffondere. Ma
l’immagine è da cambiare: un curioso disegno, un po’ inquietante e
pasticciato… orna cartoline e grembiuli. Brutta. Sia detto così,
in libertà e senza voler offendere nessuno.
Ci voleva la cena degli ex allievi e
docenti della scuola alberghiera Rosmini di Domodossola per
farmi ritrovare amici vecchi e nuovi; ma anche per riassaggiare il
mitico uovo cotto a bassa temperatura. Un must della cucina creativa
di qualche anno fa, un “rinascimento” ovaiolo che avrebbe potuto
far ritornare il modesto uovo nei menù dell’alta cucina. Come lo era
una volta, decenni fa. Per smarcarsi, gli chef usavano uova
particolari, frutto di allevamenti etici, con galline nutrite con
mangimi ed alimenti particolari. L’uovo di Parisi ne era (e
forse lo è ancora) l’emblema. Il primo uovo top forse (non ricordo
esattamente, ma mi piace pensare che fosse lì) lo assaggiai nel
lussuosissimo ristorante di Alfredo Russo alla Venaria Reale, il
Dolce Stil Novo alla Reggia. Fu un’esperienza sorprendente:
l’uovo aveva una curiosa consistenza, fra il gelatinoso e il cremoso.
Con gli asparagi fu una goduria. Un uovo sublime sublimato dalla
cottura a bassa temperatura. Più volte e in altri luoghi l’ho
rincontrato, sempre con grande piacere. Al punto che ho pensato
potesse diventare un classico della nostra cucina, anche casalinga:
una volta che i forni a bassa temperatura si fossero diffusi anche
nella case. O, in alternativa, i roner, i cuoci verdura a temperatura
controllata. Però, poi non ne ho più sentito parlare.
Ed ecco, ora, giorni fa, l’ho ritrovato
con gran piacere in uno dei piatti proposti durante la serata degli
ex. Era un Uovo Cotto a Bassa Temperatura con Spuma di Patate,
Fughi e Croccante di Pane Nero che ho trovato buonissimo. L’avrà
cucinato uno dei bravi chef della serata. Io, dalla mia, penso
che l’uovo cotto a bassa temperatura sia ottimo e ancor più
accompagnato da asparagi cotti sempre e bassa temperatura. Provateli!
Poi penso che si debba fare una seria riflessione -o meglio che si
sappia di più sulla seria riflessione che si deve fare sulla
produzione di uova: spazi, diritti dei pulcini maschi (di non essere
triturati vivi, per esempio), diritti delle galline ovaiole vecchie
(di essere uccise con grazia, per esempio)… L’uovo e la gallina
sono un eterno dilemma, ma devono essere immaginati insieme.
La recitazione di Antonino Cannavacciuolo è a metà strada fra sé stesso e un attore vero. Recita ed è un po’ come se recitasse sé stesso. Come si guardasse dall’esterno. A volte un po’ straniante. Però, per il resto è un personaggio gradevole al centro di un operetta assai piacevole: “Mettici il cuore Cannavacciuolo all’Opera Live Cooking” che ho visto al Teatro Coccia di Novara la settimana scorsa.
La scenografia è quella di un cucina
didattica, con un piatto veramente realizzato (ed assaggiato da uno
spettatore estratto alla fine); la storia è di un amore vecchio e di
uno nuovo, gelosia, donne civettuole, omosessualità… Bello e
divertente, ben cantato e tutto sommato assai ben recitato anche
dallo “cheffone”.
Detto così, sembra poco. Ma invece c’è
molto: musica, orchestra, canto, dialoghi, risate, situazioni… Io
mi sono divertito e questo per me è molto. Lo rivedrei…
E il piatto? Linguine di calamaretti
spillo e salsa di pane di segale… non male, ad occhio. Ma è
forse qui l’aspetto più recitato ed artefatto dello spettacolo, non
il cuoco: per cucinare ci “devi mettere il cuore” (oibò , e la
conoscenza); i calamaretti si devono “massaggiare”; la pasta va
“pettinata”. Era come vedere uno spettacolo nello spettacolo:
solo che, curiosamente, lo spettacolo della cucina viene sentito come
vero e non verosimile come quello del teatro!
In questo lembo di mondo che mi circonda (il nord Piemonte e la Lombardia occidentale) ci sono molti ristoranti che consiglierei e che consigliano. Partiamo dalla Guida Michelin che segnala i Bib Gourmand, cioé ristoranti non stellati, un po’ più economici, ma assolutamente da provare (e godere mi verrebbe da dire). A sud, nel novarese, segnala l’Impero di Sizzano e l’Osteria di San Giulio di Bellinzago Novarese (la Badia di Dulzago). Un po’ più a nord segnala il Castagneto di Montrigiasco e l’Italia di Quarona e noi ci aggiungeremmo la Ristomacelleria sempre di Quarona e l’Usteriola del Tia di Briga Novarese. Ad Omegna segnalerei il 9090, novità di quest’anno. Mentre la Michelin segnala l’Edelweiss di Crodo, ancora più a nord, in Ossola. Nella stessa zona io segnalerei anche il Marconi di Crodo e Il Risottino di Bracchio di Mergozzo. E solo così, di primo acchito. Da provare ed ampliare.
Il
Futurismo predicava l’abbandono del “passatismo”, era contro i
musei, il languore romantico, le pesanti abitudini tradizionali…
Celebrava il mondo nuovo con la sua velocità e predicava rottura,
nuovi schemi, capacità di essere nel cambiamento e non essere
travolto da…
Un
modo di pensare che anticipava e si è poi integrato con il presente.
Un fluire di passato, passato prossimo e presente che la mostra
illustra con oltre settanta opere. Una
visione coinvolgente: dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al
1960. Ed è proprio sul
finire dell’800 che la grande povertà delle aree montane, le
difficoltà di un’agricoltura contadina legata alla sussistenza e
all’autoconsumo, unita alla diffusione della Fillossera, causarono
il lento abbandono del Prunent, antica varietà di nebbiolo,
caratterizzata da misurati rendimenti. Un antico che se ne andò.
Per poi tornare, tradizionale ma modernissimo. Da un lato, infatti, segeuendo Filippo Tommaso Marinetti, padre fondatore del movimento, che confida apertamente nelle capacità dell’uomo in rapporto con la natura, i fratelli Garrone, in collaborazione con l’Associazione Produttori Agricoli Ossolani, a partire dagli anni ‘90, hanno dato vita ad un progetto di recupero della viticoltura ossolana e del vitigno autoctono Prunent. Proprio partendo da quelle viti vecchie, ma franche di piede, ultra centenarie, allevate su ripidi terrazzamenti con la tradizionale Topia. Sessanta piccoli produttori sono oggi coinvolti in questo progetto comune. Dall’altro lato, il recupero del Prunenet è stato anche favorito dalla diffusa mentalità post futurista, che vede nel rapporto veloce con il mercato e le tendenze di consumo, l’essenza della produzione moderna. In velocità si è infatti evvertito il rinovato interesse per il vino degli anni ’80, la riecerca di autenticità degi anni ’90, il rinnovato rapporto fra prodotto e territorio del terzo mllennio. Il Prunent osoolano è dunque interprete di modernità futurista, declinata con la tradizione e con il territorio. Il Prunent fotografa infatti un territorio difficile, caratterizzato da rigide condizioni ambientali distinte da violenti sbalzi termici tra giorno e notte, da impervi ed inaccessibili appezzamenti strappati alla montagna che impongono lavorazioni manuali ed un impegno costante in vigna.
I terreni, a base
granitica, originano un prodotto che prevede una fermentazione sulle
vinacce per almeno sette giorni e una maturazione per tredici mesi,
di cui 6 in barrique, custodite in questo caso nella cantina
dell’antica casa “Cà
d’Mattè”,
sita ad Oira.
Riposa in bottiglia per un anno prima di essere messo in commercio.
Il Prunent esprime
grande finezza ed eleganza. Regala un naso denso di sfumature
minerali che virano dal cuoio al tabacco per concentrarsi su note
fruttate di prugna e ciliegia. La speziatura dolce di cannella e le
piacevoli percezioni vegetali di china e rabarbaro completano le
sensazioni gustative con un ricco finale floreale di viola.
Veronelli, nel
1968, nella sua guida diceva: “bel vino, perdio, rosso rubino;
secco con piacevole fondo acidulo; grana fine e scorrevole; corpo
lieve ma elegante. Il vitigno richiede cure particolari, la
produzione d’uva non è così abbondante e la vinificazione non
ammette errori”
Non è la prima volta che organizzo un corso sui vini a Ghemme, ma questa volta c’è la collaborazione con l’Unpli ed altri soggetti interessati; poi a fare gran parte del lavoro ci sono due sommelier Ais. Interessante. Vi invito a leggere il programma e di divulgarlo. Ci vediamo a Ghemme?
Bella la prima di Giancarlo
Rebuscini: un bel libro di cucina “Tra Piemonte e Lombardia:
le ricette tutt’intorno a una terra di mezzo” (Edizioni
CentoArchi); che è un compendio ideale della cucina di qualità che
si può trovare fra il Piemonte e Lombardia. In quella “terra di
mezzo” che per anni è stato il novarese, dall’alta Ossola alla
pianura. In più, un pizzico di internazionalità data all’Autore da
una lunga militanza all’estero e dalla frequentazione di una scuola
alberghiera, quella di Stresa, per poi approdare a Borgomanero,
alla Bocciofila. Si passa così, senza accorgersene, dal
carpione alla mousse, dalle polpettine alla tartare, dalla terrina
alla quiche… rimandeno solo sugli antipasti. Sui primi, invece, il
taglio è più originale, con un solo riso moderno: un Riso venere,
scampi e ribes; e uno creativo: Risotto alla pesca noce. Nelle
ricette di pasta fa capolino il cacao e via dicendo… Giusta
l’osservazione del curatore “una sintesi che lo chef porta nei suoi
piatti, fra tradizione e modernità”. Un libro, dunque, che è sì
testimonianza di un cucina solida ed ancorata al territorio
(tradizioni, cotture e prodotti) ma anche testimonianza di una vita
professionale ricca ma composta, concreta. Buona lettura, direi. Un
libro da tenere, sfogliare, usare, ragionare.
La terza edizione di Domosofia inizia oggi, 18 settembre 2019, ed è dedicata al tema de La Passione. E così il Festival delle idee e dei saperi di Domodossola si riempirà di idee, di laboratori e di personaggi fino a lunedì 23 prossimo. La città sarà a sua volta riempita di gente: o in piazza Rovereto o nella Cappella Mellerio o in piazza del Mercato o nel teatro Galletti. Fra le idee segnaliamo la “Bellezza, eterna aspirazione” con Stefano Zecchi (anche un bel personaggio) oppure “Slanci vitali. Quando la vita decolla” di Paolo Crepet (idem) o “Amore mio come sei cambiato” di Francesco Alberoni o “La fabbrica dei sogni” di Pupi Avati… Ma se scorrete il programma su domosofia.it potrete trovare anche altro: altre idee, altri incontri, altri personaggi, laboratori e anche una serata, una cena gourmet con eccellenze enogastronomiche del territorio, lunedì al Sacro Monte Calvario.
Abbiamo partecipato, lunedì 16 settembre, presso il ristorante La Rampolina di Stresa, alla “Presentazione del mondo Essse Caffé” (con tre esse), rivolta a ristoratori e baristi. Un incontro interessante, fatto di approfondimenti che riguardano il mondo del caffè, ma anche di importanti nozioni teorico pratiche, per addetti ai lavori, e non per ultime, con precisazioni che riguardano comuni modi di pensare riguardo le miscele che compongono i caffè, e l’utilizzo, non sempre corretto dei materiali, nelle varie preparazioni della caffetteria. Questo, è quello che Vito Campanelli, consulente e Bar- Trainer, della Essse Caffè tende a sottolineare: “Le miscele, sono sempre la composizione di più qualità di caffè, di cui la Arabica, è la più apprezzata e conosciuta tra i consumatori”, e ha aggiunto poi il consulente aziendale che “va però, supportata con altre qualità, come la Robusta, essenziale per dare struttura al caffè, ed ottenere cosi un espresso corposo e cioccolatoso”. Tante sono state le domande, durante la serata, da parte del numeroso pubblico partecipante, a dimostrazione di un interesse professionale molto sentito, riguardo le tecniche più corrette per servire un espresso all’altezza della sua fama. La serata si è poi conclusa per tutti gli ospiti con un piacevole aperitivo offerto da parte del noto brand di caffè; con lo sfondo del Golfo Borromeo come vista, a far da cornice.